Beaumont sur Mer Gen 13 2016
ll mare ha sempre stimolato la fantasia dell’uomo, che nei racconti, ha trasformato i fondali in luoghi leggendari, popolati da creature mitologiche. Per gli antichi greci la caduta di Troia non rappresentava solo la fine dell’eroico mondo di Micene e di Pilo, ma anche il momento in cui aveva avuto inizio l’espansione greca nel Mediterraneo e oltre, l’avvento di una epoca in cui i marinai si cimentarono con le insidie del mare aperto, incarnate nelle sirene dal canto ammaliante, nella maga Circe, o nel Ciclope monocolo. I burrascosi mari dell’ “Odissea” di Omero e di altre leggende di eroi reduci da Troia. Profondamente adirato con Ulisse, Poseidone, Dio dei marosi, cerca continuamente di distruggerne in mare aperto la fragile imbarcazione. “Tutti gli Dei ne avevano pietà, ma non Poseidone, questi serbava rancore violento”; tanto più dopo che ebbe ucciso Polifemo, figlio del Dio. L’obiettivo degli eroi erranti, di Ulisse in Occidente, come di Menelao di Sparta in Libia e in Egitto, era fare “ritorno” in patria. Il mondo inesplorato era pieno di lusinghe. Ulisse al decimo giorno del suo viaggio, approda al paese dei Lotofagi, che ai suoi messi, inviati a riconoscere il luogo, fanno cordiali accoglienze e dànno da mangiare il loto, il quale produce oblio del passato e desiderio di non ripartire. Senza dimenticare la grotta di Calipso o le Sirene e il loro canto. Non vi sono dubbi sulla possibilità di identificare molti dei luoghi che Omero menziona nella “Odissea”, specie quelli nelle acque dell’Italia meridionale e della Sicilia: i pericolosi flutti di Scilla e Cariddi furono così individuati nella seducente e irresistibile forza delle correnti dello stretto di Messina. Mito, storia, leggenda, Odisseo indicò le rotte per… “far ali al folle volo” nelle Sacre Acque, dove si spinsero navigatori greci, fenici, romani, veneziani, turchi, genovesi, catalani, francesi, britannici…di qui il mare dai molti nomi… dei popoli, mossi non certamente da spirito d’avventura, o meglio, non solo da spirito d’avventura. Spinti anche dal bisogno come: ” stato di insoddisfazione che spinge l’uomo a procurarsi beni capaci di far cessare uno stato di necessità o di malessere, e di far perdurare una condizione di benessere”. Da questo e tanto altro i traffici che fin da epoca remota hanno reso il “grande Lago” di cui fa parte il Tirreno un vero e proprio ponte di reciproca conoscenza tra popoli diversi. Non di meno teatro principale della storia e della cultura della civiltà occidentale. In molti lo hanno navigato, tanti sono stati inghiottiti dalle sue acque, tutti almeno una volta sono rimasti ipnotizzati dal suono delle onde che si infrangono sulla riva, i più sensibili lo hanno cantato, alcuni lo hanno ritratto: “ Noi ci allegrammo, e tosto tornò il pianto;/ché de la nova terra un turbo nacque,/e percosse del legno il primo canto./Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque:/a la quarta levar la poppa in suso/e la prora ire in giù, com’altrui piacque,/infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”. (Canto XXVI – Inferno – La Divina Commedia – Dante Alighieri). A segnare la storia del “grande Mare”, il nome con cui era noto nella tradizione ebraica, non sono stati il clima, i venti o le correnti, ma gli uomini: navigatori, mercanti, missionari, condottieri, crociati, pellegrini, pirati, che, mettendo in contatto le regioni più remote di questo vasto bacino, lo hanno reso “forse il più dinamico luogo di interazione tra società diverse sulla faccia del pianeta”. La magia salta agli occhi già dal nome: “Vaticano” dal latino Vaticinium, che significa oracolo, responso, a rievocare una leggenda che vuole la punta estrema del promontorio calabrese abitata dalla profetessa Manto. A lei si sarebbero rivolti i naviganti prima di avventurarsi tra i vortici di Scilla e Cariddi e lo stesso Ulisse, scampato agli scogli del pericolo, avrebbe chiesto aiuto a Manto circa la prosecuzione del suo viaggio. Sotto il promontorio di Capo Vaticano si distendono spiagge di finissima sabbia bianca, lambite da un’acqua cristallina. Tra le più suggestive Torre Ruffa, teatro di una triste e leggendaria vicenda. Rapita dai Saraceni, la bella e fedele vedova Donna Canfora si sarebbe gettata dalla loro nave al grido: “Le donne di questa terra preferiscono la morte al disonore!”. Un tempo arido e selvaggio, oggi Capo Vaticano è un giardino incantevole, un affaccio naturale sul mare di Ulisse con una delle viste più sorprendenti sulle isole Eolie. Poche miglia a nord si incontra una Città sempre rinomata con onore, prima e dopo la venuta di Cristo. Allora con nome di Napezia come riferito da Strabone: “Non abbiamo la sua prima origine ma io la stimo Focese, da quei Focesi li quali dopo gli affari Troiani abitarono queste riviere. Io la penso come mutata di religione, così ancora di nome, cioè di Napezia in Amantea, può essere giusto il pensamento di Barrio: ‘Nimpha quasi per arenam currens’.” Né dalle Muse né dagli altri Dei lo aiuto et favore noi chiediamo. Di nessun altro al presente ci cale, se non di te, oh Fortunata – Amantea. Te potente credevano li antichi. Tu, da quelli, fosti existimata Dea”. Mentre io, moderno mortale, l’Amanteana chiamo Donna.
In a dream I had, the woman I love had chosen the beach, as a good place to forget the rest of the world and enjoy the constantly dreamy Tyrrhenian Sea and its Sun. To envision the passage of time and listen to the whispers of the sea which heard stories of lovers, passengers, strangers, sailors and was not shy to tell us some.
Gigino A Pellegrini & G el Tarik