Beaumont sur Mer luglio 2016
Molti anni orsono, durante una delle prime estati passate lontane dal Mare di Ulisse, mi trovavo a Edmonton, nel nord ovest canadese, alla guida di una Galaxy 500 Ford del 1964 comprata usata per circa 600$. Era molto bella e grande come erano allora le macchine americane. Nera all’esterno e rossa internamente. Andavo alla ricerca di non so cosa. Le immense foreste dei pini canadesi sembravano proseguire all’infinito. Un’attrazione irresistibile. Lasciavo la città percorrendo l’autostrada 43 nord che portava in Alaska, ma non era quella la mia destinazione. Il luogo che attirava i miei interessi si chiamava Grand Prairie. Una cittadina distante da Edmonton circa 460 km. Uno dei passaggi del cigno trombettiere che è la più grande specie vivente degli uccelli acquatici del mondo. È chiamato cigno trombettiere perché il suo verso ricorda il suono di una tromba. La loro apertura alare media è di 2 m. Il nome Grand Prairie deriva dalla sua vicinanza alle grandi praterie del nord e dell’ovest e ricoprono buona parte della Provincia dell’Alberta. Due giorni dopo ripresi la strada. Direzione nord ovest e mi ritrovai a Peace River, in quello che allora era poco più di un villaggio. Venni a contatto, per la prima, volta con alcuni indiani del nord, le loro usanze e riti. La danza del sole, una delle più sacre cerimonie delle popolazioni pellerossa delle Grandi praterie, si svolgeva da quelle parti in località riservata e segreta. Questo giustificava la numerosa presenza di indiani nel piccolo paese. Così mi spiegava Mahigan, un “Cree”, nel suo inglese molto particolare, mentre consumavamo un bibitone di caffè seduti nell’unico coffee shop di Peace River. Mahigan era un trapper, un cacciatore di pelli, mi spiegava che la cerimonia non era per tutti e si trattava di un’esperienza di grande impatto emotivo. Finito il litrozzo di caffè mi ritrovai in strada, invitato dal trapper a seguirlo fino a raggiungere una piccola radura in mezzo a betulle, abeti rossi, pioppi e libellule. Uno strano cerchio fatto di arbusti occupava gran parte dello spazio. Nel centro un bel po’ di pietre levigate di fiume. Si trattava di uno spazio dove gli indiani costruivano la loro “Sweat lodge”, una capanna sudatoria. Un luogo dove mettersi alla prova nel sopportare il calore resistendo al gran desiderio di voler uscire al più presto all’aria aperta. Nella capanna del sudore si imparava a controllare le proprie paure restando dentro fino alla fine della cerimonia. Secondo Mahigan, in quel sudario l’uomo affrontava il suo da sempre irriducibile nemico: sé stesso. Non avevo nessuna voglia di tornarmene in città e così chiesi a Mahigan se potevo accompagnarlo per un po’ di giorni mentre lui piazzava le sue trappole nei boschi. La mia richiesta lo colse di sorpresa. Dopo qualche minuto mi disse di si, ma solo per pochi giorni.
Dopo aver tirato su il tepee insieme a Mahigan, lo stesso mi invitò ad entrare in quella straordinaria costruzione. Mahigan, così mi disse di chiamarlo, mentre lo accompagnavo nelle foreste che circondavano il villaggio di Peace River. Un’antica leggenda indiana della tribù Beaver diceva: ‘Bevi l’acqua del fiume Peace River e tornerai ancora’. Il fiume era uno dei sistemi fluviali più lunghi e più belli dell’intero Canada ed era stato, per lungo tempo, la principale via di comunicazione utilizzata sia dai primi esploratori che dalla Hudson Bay Company e ancora prima dalle popolazioni pellerossa dei Beaver e dei Cree, che in quell’area avevano i loro insediamenti. Il villaggio di Peace River era situata lungo le rive dell’ omonimo fiume, nei pressi della confluenza tra i fiumi Peace, Smoky e Heart Rivers. _Camminai insieme a Mahigan per circa 4 ore fino a raggiungere Kaufman Hill e Sagitawa Lookout, situati in una posizione strategica per apprezzare l’incredibile bellezza della Peace River Valley. Quelle foreste e praterie, mi diceva Mahigan, erano importanti corridoi naturali per alci, cervi dalla coda bianca, orsi bruni, volpi, coyotes e lupi e ospitava anche una grande varietà di uccelli. Quel tardo pomeriggio lo aiutai nel costruire il tepee. Sarebbe stata la prima volta per me entrare in una “casa” pellerossa. Un tepee. Realizzato normalmente con pelle di bisonte fissata intorno a dei pali molto lunghi e progettato a forma di cono. I tepees son fatti per tenere caldo in inverno e fresco in estate. In tempi passati, alcuni erano piuttosto grandi. Potevano ospitare 30 o 40 persone comodamente. L’ingresso è costituito da un lembo di pelle di animale selvatico. Tempo permettendo, l’ingresso veniva sempre posizionato verso est, verso il sole nascente. Se il tempo era cattivo o si stava preparando una tempesta, il ‘flap’ veniva posizionato nella parte riparata dal vento. Mahigan mi spiegò alcune regole sul tepee. Se lo sportello di pelle dell’ingresso era aperto, era un invito ad entrare. Se l’aletta era stata chiusa, bisognava annunciare se stessi e attendere l’invito ad entrare. All’interno del tepee, l’ospite si sedeva al fianco sempre del capo famiglia, il quale sedeva lontano dall’ingresso. Queste erano le regole che tutti sapevano e rispettavano nel villaggio. Le donne avevano la responsabilità di posizionare il tepee. Il tepee era il loro castello. Veniva costruito da loro e poi smontato per il trasporto.
Il primo freddo autunnale cominciava a farsi sentire. Il paese di Peace River era ormai lontano anni luce da dove mi trovavo insieme al trapper Mahigan. Bizzarro nome per un meticcio Cree, quello di chiamarsi Lupo. Il giorno che lasciammo Peace River per addentrarci nelle foreste che la circondavano, con Mahigan mi recai in un negozio di alimenti vari. Comprammo 100 pounds di farina (poco più di 40 kg), 20 pounds di bacon (circa 8 kg), 10 pounds di caffè (4 kg), 10 pounds di zucchero (4 kg) e 10 pounds di sale (4 kg). Insieme a tutto questo, comprò anche carne secca di manzo, riso, tè, fagioli secchi, frutta secca, baking soda (il saleratus, vale a dire il lievito), aceto, salamoie e senape. Il tutto venne caricato sul dorso del suo cavallo.
Mi ero avvolto in una pelle di cervo dalla coda bianca e indossavo pantaloni di pelle di orso, il vento del nord aveva bruciato il mio viso. Al mattino, senza preavviso, Mahigan mosse la frusta facendola sibilare attraverso l’aria e al suo secco comando il cavallo reagì andando in avanti velocemente. Sono riuscito in tempo a tenermi aggrappato alla “slitta” ricavata da un vecchio cofano anteriore di un camion Al nostro ritorno al tepee, dopo aver disseminato trappole dappertutto, Mahigan, mi invitò al silenzio più assoluto. A differenza di altri indiani, parlava inglese. I Cree hanno vissuto nelle terre del nord per migliaia di anni. Durante tutto questo tempo hanno sviluppato un enorme rispetto e comprensione verso l’ ambiente che li circvondava. Loro sanno e comunicano con la terra in un modo che noi, provenienti dal sud industrializzato e ricco, non riusciamo neanche a percepire . Per me, il rumore del cofano di camion usato come slitta sul ghiaccio sembrava normale, mentre Mahigan avvertiva in esso la differenza tra la vita e la morte. Nel mese passato con lui mi raccontò e mi insegnò molte cose come, per esempio, camminare nel bosco per produrre il meno rumore possibile. Mi raccontò anche che andando a caccia nel nord aveva incontrato un altro popolo: gli Inuit, i discendenti di quello che gli antropologi chiamano la cultura Thule, un popolo nomade proveniente dall’Alaska occidentale e che si estese verso est. Oggi ci sono circa 160.000 Inuit che vivono nelle regioni artiche dell’Alaska, Canada, Groenlandia e Chukotka, la Russia. L’esistenza Inuit si basa essenzialmente, sulla caccia. Il loro sostentamento e mezzi di mantenimento della vita stessa deve venire dalla propria astuzia, abilità e ingegno. In quei trenta giorni Mahigan mi parlò molto anche del suo popolo, delle loro abitudini e riti e degli orsi, in particolare del Grizzly. Gli uomini e le donne tradizionalmente avevano ruoli molto specifici. L’uomo era il cacciatore; costruiva la slitta, strumenti e gestiva i cani o il cavallo. Le donne preparavano il cibo, gestivano il campo, curavano le pelli e con esse cucivano i vestiti. La figura dell’orso, nella mitologia di quasi ogni tribù di pellerossa nordamericani è considerata come un toccasana con impressionanti poteri magici e svolge un ruolo importante in molte cerimonie religiose. Gli orsi sono simboli di forza e saggezza per molti nativi e sono spesso associati con la guarigione e la medicina. L’orso viene considerato uno dei sei guardiani direzionali, associato con l’Occidente e il colore blu. Mahigan mi parlò di un popolo pellerossa, gli Zunis, che attribuivano poteri di guarigione agli orsi e scolpivano con la pietra feticci dell’animale per protezione e come porta fortuna. L’artiglio di un orso era uno dei talismani che venivano messi nei pacchetti di medicina, che i guerrieri di alcune tribù indossavano come collana. A volte il Trapper si lasciava andare e mi raccontava storie straordinarie sugli orsi. “Nel percorrere in un bosco il sentiero di un orso, inevitabilmente ci racconterà la sua lunga storia al fianco del primo popolo del nord America.” Come simbolo dei nativi, l’orso è uno spirito libero come il gran vento. Un animale enorme che si foraggia apparentemente in pace con frutti di bosco. Gli indiani sono stati i primi a conoscere la loro ferocia, se provocati. Mahigan a volte era un vero fiume in piena: “A causa di questa tempesta potenzialmente furiosa, appena sotto la superficie dello spirito degli orsi, i nostri antenati erano estremamente prudenti e rispettosi di questo animale”. La simbologia dell’orso è stata arricchita da osservazioni fatte dai saggi delle tribù. Queste vitali figure tribali erano da sempre portate alla comprensione più profonda di come la natura comunicava le proprie intenzioni in tutte le sue forme. “Questi saggi riuscirono a trovare i collegamenti tra uomo e bestia e da quelle associazioni arrivarono a interpretare i significati più profondi che indirizzarono i nostri antenati all’azione, e alla saggezza”. Questo pensiero, mi raccontava il trapper, proveniva da un saggio indiano Shoshone che, deciso a colmare le differenze fra i vari mondi dell’universo, si mise a camminare in trance. Durante il suo peregrinare, gli apparve il sito di un clan di orsi che stavano effettuando quello che sembrava essere una danza rituale. Questi non erano spiriti di orsi ma veri e propri orsi che si reggevano sulle zampe posteriori e ballavano sotto i raggi dorati del sole. Il saggio Shoshone capì che quello era una danza di ringraziamento per la guarigione e la protezione dei loro piccoli. Da quel momento in poi la tribù Shoshone ha dedicato la propria Danza del Sole, con l’orso figura centrale del rituale a simboleggiare la protezione, la forza e la continuità della progenie della tribù. Di tutti questi racconti di Mahigan, ciò che ad oggi mi rimane è la stranezza. Forse dovuta in gran parte al suo inglese molto particolare. Durante la notte, mentre l’oscurità copriva come una coperta la prateria, e le foreste del nord dell’Alberta, un senso di solitudine si impadroniva del tepee… era durante queste notti che coyote e lupi con i loro ululati portavano il terrore nella mia persona. Dopo che giravano per i boschi, questi animali rapaci attaccavano e ferivano senza nessuna provocazione e senza pietà. Mahigan aveva la buona abitudine di tenere sempre a portata di mano un fucile, in caso di ripetuti attacchi di questi animali.
In almeno due occasioni il fuoco si impadronì della prateria e del bosco. Per proteggere le loro fattorie molti contadini del nord scavavano nella terra una lunga e profonda trincea che chiamavano “guardia del fuoco”. Ma le fiamme, alimentate dai venti, spesso riuscivano a superare questi solchi. In quella parte del West canadese, la sopravvivenza era il primo pensiero che svegliava ogni mattina ogni uomo e donna. Chi viveva nei ranch e nelle fattorie isolate aveva sulle proprie spalle il peso di tutto ciò che succedeva. Al contrario, chi abitava nelle cittadine del West aveva a disposizione “servizi” un po’ meno primitivi ma sempre e comunque assolutamente insufficienti. Vigeva quindi la regola del “chi fa da sé, fa per tre”. La vita nelle interminabili praterie e foreste dell’ovest canadese era ogni giorno una sofferenza, completamente l’opposto da ciò che ci è stato tramandato da film e libri in maniera romanzata. Gli uomini e le donne dovevano lottare contro ogni genere di avversità: sopravvivere però non significava solo curare le ferite o sistemare ossa rotte. Significava anche prodigarsi per riuscire a mettere qualcosa sotto i denti, mantenere la famiglia, lottare contro le malattie. Mahigan era un fiume in piena sul West. Gli sfortunati che rimanevano intrappolati negli spietati deserti delle “Bad Lands” nel sud dell’Alberta, potevano contare su alcuni accorgimenti in caso di immediato bisogno. Quando per esempio rimanevano senza viveri o senz’acqua. Per poter sopravvivere e non morire di fame, una preziosa alternativa erano i pipistrelli. Venivano catturati battendo con un grosso bastone le volte delle caverne e, prima di pulirli, aspettavano fin quando i parassiti non ne abbandonavano i corpi. Quindi venivano spellati e arrostiti sul fuoco. La loro carne era bianca, tenera e deliziosa. Serpenti e lucertole erano un’altra alternativa, così come i petali dei fiori. Se essi però risultavano amari o generavano un liquido incolore, si passava subito alla ricerca di qualcos’altro. La corteccia degli alberi, specialmente di betulla e salice, veniva cotta sui carboni fin quando non risultava abbastanza masticabile.
Erano passati quasi trenta giorni da quando in un caffè di Peace River, avevo incontrato Mahigan. Al mattino, come quasi tutte le mattine, andavo con lui a controllare le trappole messe giù nei giorni precedenti. Avevo notato un certo disagio e fastidio sottolineato dal silenzio dell’anziano trapper. Un silenzio che durava da circa tre giorni. Una sera, mentre eravamo seduti all’interno del tepee preparando dei fagioli in scatola con dei wurstel, Mahigan ruppe finalmente il silenzio, e, nel suo inglese molto colorito, iniziò a raccontarmi una delle tante storie Cree. “ Un certo padre, desideroso che suo figlio venisse favorito dagli spiriti degli antenati, lo portò in tutti i luoghi sacri dei vari difensori; come gli spiriti aiutanti erano chiamati, e in ciascuno di questi luoghi il giovane figlio veniva lasciato per almeno tre giorni e tre notti, a digiunare e a meditare. In questo modo il figlio mise da parte molta conoscenza e molto potere. Ogni grande lago gli aveva rivelato i propri tesori di vita nascosti. Ogni particolare formazione collinare o montagnosa aveva i suoi poteri nascosti in varie forme. Quando il giovane figlio, finalmente, sentì di avere acquisito sufficiente conoscenza e saggezza, che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita, chiese al padre di riportarlo a casa. Ma il padre non si riteneva per nulla soddisfatto e così decise di costruire un tepee vicino ad un ruscello di acqua limpidissima e fresca. In quel tepee, il padre ordinò al figlio di vivere in totale solitudine per un lunghissimo periodo di tempo. Quando l’uomo decise di tornare in quel luogo dove aveva lasciato il proprio figlio, all’improvviso fu sorpreso nell’udire una voce di donna insieme a quella del figlio, provenire dal tepee. I due stavano cantando una bellissima canzone d’amore. L’uomo si fermò non lontano dal tepee e sentì il figlio dire: ‘Si! Verrò con te. Ho supplicato mio padre di riportarmi a casa ma non lo fece perché non si riteneva soddisfatto dalle prove che avevo superato. Durante le tantissime lune trascorse in piena solitudine in questo tepee, mi struggevo per amore e non per il potere; allora guidami tu, dolcissima donna ed io ti seguirò ovunque’. A queste parole, visto che i due giovani non venivano fuori, il padre decise di entrare nel tepee senza essere invitato. Alzato il lembo di pelle che costituiva l’entrata al tepee, l’uomo si ritrovò al suo interno ma non vi trovò nessuno. Il tepee era vuoto. Guardando verso l’apertura conica della sommità della tenda, l’uomo vide due uccelli appollaiati sui pali incrociati. Non aveva mai visto uccelli simili a quelli in tutta la sua vita. Avevano ambedue il petto completamente rosso”. All’alba del mattino successivo, raccolte le poche pelli di volpe rossa e di procioni argentati, ci mettemmo in marcia verso Peace River dove arrivammo intorno alle 11. Durante il tragitto ci imbattemmo in una situazione non molto felice: due grossi orsi si trovavano sul nostro sentiero. Dopo un po’ decisero di andarsene. Non ho mai avuto così tanta paura nella mia vita. L’orso, un animale che è sempre stato circondato da una nomea non degna del suo carattere. Prima di accompagnarmi alla mia Galaxy 500 nera che avevo lasciata parcheggiata in paese, Mahigan mi disse, “Tornatene in città. Ricordati che, per sua natura l’orso è un animale che rasenta la timidezza, non gli piace la vita sociale, infatti vive in branco unicamente con la femmina al momento del parto. Il suo territorio è di circa una ventina di chilometri quadrati, è – di fatto – un animale opportunista per quanto riguarda il cibo. I suoi bocconcini prediletti sono le radici, le bacche, germogli vari, qualche fungo e l’alimento che lo fa impazzire è il miele. E’ un
grande ‘camminatore’ e viene chiamato plantigrado poiché si muove appoggiando tutta la pianta delle zampe”. Queste furono le ultime parole di Mahigan, prima di andarsene. Dovetti restare nel villaggio per far ricaricare la batteria dell’auto. Ripartii il mattino seguente per tornarmene “in città”.
Qualche mese più tardi, nello Hub dell’università dell’Alberta me ne stavo seduto a sorseggiare un buon caffè canadese e pensavo alle parole di Mahigan e molte persone occidentali mi apparirono afflitte da una sorta di ‘sindrome dell’orso’ : non riuscivano più a socializzare, erano spesso pigri ed introversi e questo li portava progressivamente a quella condizione psicologica chiamata solitudine. Qualche esperto psicologo scriveva, infatti, che l’essere “orsi” poteva essere considerato come una sorta di “pharmakon” parola che racchiudeva in sé due significati: cura e veleno. L’essere orsi diventava veleno quando non era altro che una fuga, uno scappare da un mondo che si percepiva come ostile, per trovare riparo in sé stessi; in quei casi però il chiudersi avrebbe determinato proprio l’effetto contrario, in quanto, tagliando i ponti col mondo, si sarebbero tagliati i ponti anche con tutto ciò che poteva dare identità che a quel punto, anziché essere difesa, avrebbe vacillato. Si giungeva così ad un paradosso in cui ci si ritirava dal mondo per sfuggirlo ma in quella solitudine ci si accorgeva che non si era per nulla al riparo, ma anzi si incontrava spesso la rabbia e ci si sarebbe sentiti in colpa proprio per esser rimasti soli. Tutto ciò sarebbe spesso determinato dalla carenza di significativi rapporti sociali, che portano alla progressiva mancanza di passione e all’indifferenza affettiva, caratteristiche tipiche dell’apatia, la quale si manifesterebbe in quella propensione a non voler affrontare alcuna attività in quanto ogni azione sarebbe privata del senso del piacere, che a quel punto solo il rinchiudersi in sé potrebbe sostituire. L’essere “orsi”, e in particolar modo la solitudine che ne conseguirebbe, se da una parte potrebbe rappresentare un segnale di sofferenza, dall’altra nella giusta misura, potrebbe rappresentare un momento fondamentale dell’esistenza umana per comprendere meglio una situazione o per riprendere la propria strada smarrita. La solitudine come un momento prezioso per poter esprimere la creatività, dove, anche se in apparenza sembrerebbe una perdita di tempo in cui non si starebbe facendo nulla, in realtà ci si ritroverebbe in una sorta di “incubazione” essenziale per poter rinascere. In questi casi il ritirarsi come fa un orso sarebbe utile per recuperare quelle potenzialità assopite dalla routine quotidiana, dai compiti e dai ruoli che ogni giorno vengono richiesti; ci si ritirerebbe dal mondo per meglio comprenderlo, per poter avere uno sguardo nuovo sulle cose e sulle relazioni che abitano il nostro intimo, perché solo staccandosi per un momento dal mondo, sarebbe possibile guardare alla quotidianità con occhi nuovi.
Gigino A Pellegrini & G el Tarik