Salvatore Di Giacomo nacque a Napoli il 13 marzo 1860, figlio primogenito del medico Francesco Saverio e di Patrizia Buongiorno, il cui padre insegnava al Conservatorio di San Pietro a Maiella. Dopo aver conseguito la licenza liceale presso l’istituto Vittorio Emanuele, frequentò per volere del padre la facoltà di Medicina. Di Giacomo non aveva alcun interesse per gli studi cui era stato indirizzato, tanto che nell’ottobre 1880 abbandonò l’università in seguito a un celebre episodio che egli stesso descrisse sei anni più tardi. Un giorno, recatosi ad assistere a una lezione di anatomia, rimase nauseato alla vista del cadavere di un vecchio, sul cui volto il professore aveva tracciato cinque o sei linee di demarcazione, in modo da spiegare la composizione del cranio. Corso fuori dall’aula, si trovò suo malgrado protagonista di una scena raccapricciante. “Al meglio della lezione, uscii dalla sala. Non ne potevo più; mi si rivoltava lo stomaco. Senza guardarmi attorno, senza salutare nessuno, infilai il corridoio e feci per ascendere, in fretta e furia, la scaletta. In cima il bidello si preparava a discendere, con in capo una tinozza di membra umane. I gradini della scaletta, su per i quali erano passate centinaia di scarpe gocciolanti, parevano insaponati. Il bidello scivolò, la tinozza – Dio mio! – la tinozza rovesciata sparse per la scala il suo contenuto e, in un attimo, tre o quattro teste mozze, inseguite da gambe sanguinanti, saltarono per la scala fino a’ miei piedi! Quell’inserviente, dalla faccia butterata e cinica, dall’aria insolente, dalla voce sempre rauca, com’egli era sempre oscenamente avvinazzato, si chiamava Ferdinando. Per la faccia sua, cincischiata a quel modo, i compagni lo chiamavano, napoletanamente, Setaccio. Io devo la mia salvazione a Setaccio, perché da quel giorno la cantina dei cadaveri non mi vide più e nemmeno l’Università, dove compivo il terzo anno di medicina. Di Giacomo si sentiva attratto dalla letteratura e dalla critica letteraria. Si rivolse così al Corriere del Mattino, diretto da Martino Cafiero. La collaborazione cominciò con alcune novelle. Cafiero e Federigo Verdinois, che si occupavano della parte letteraria, sospettarono potesse averle tradotte dal tedesco. Di Giacomo fu così costretto a scriverne di nuove per promuoverne l’autenticità, e al tempo stesso ricevette uno sprone a proseguire nell’attività di novelliere. Dopo alcuni mesi diventò così ordinario collaboratore del Corriere, assieme a Roberto Bracco, con cui instaurò una profonda amicizia, e Giuseppe Mezzanotte. Il 21 settembre 1884 perse il padre nell’epidemia di colera che colpì la città. Quell’anno pubblicò per l’editore Tocco la già copiosa produzione poetica in dialetto, che apparve con il titolo Sonetti. Seguirono, nel giro di pochi anni, le raccolte poetiche ‘O Funneco verde (1886), Zi’ munacella (1888) e Canzoni napoletane (1891). Nel 1892 fu tra i fondatori, assieme a Benedetto Croce, Vittorio Spinazzola e altri intellettuali, della nota rivista di topografia ed arte napoletana Napoli nobilissima. Dal 1893 ricoprì l’incarico di bibliotecario presso varie istituzioni culturali cittadine (Biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Maiella, Biblioteca Universitaria, Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III). Nel 1902 divenne direttore della Sezione autonoma Lucchesi-Palli della Biblioteca nazionale e dal 1925 al 1932 ricoprì la qualifica di bibliotecario capo. Nel 1889 Di Giacomo, non ancora sposato, iniziò a frequentare la casa di Benedetto Croce con il quale ebbe “rapporti vari e variabili”, secondo i rispettivi umori e le rispettive concezioni della vita, secondo la natura degli studi e delle attività pratiche connesse, a cui l’uno e l’altro si andavano via via dedicando: avvicinamento, per esempio, quando entrambi si muovevano sul terreno della minore storia napoletana, Croce attendendo ai Teatri di Napoli, Di Giacomo alla Cronaca del San Carlino, e i due prendendosi cura della nuova rivista Napoli mobilissima; distacchi più o meno prolungati quando il Croce si astraeva nei grossi problemi filosofici che si erano affacciati alla sua mente, o apriva la breve parentesi ministeriale, e Di Giacomo si buttava senza respiro nella produzione canzoniera. Tuttavia “qualche cosa mancava sempre alla sua inquietudine spirituale” quella serenità che nemmeno l’arrivo dell’amore per una donna molto più giovane di lui, che poi sposò nel febbraio del 1916 dopo un tormentato fidanzamento durato circa undici anni, riuscì ad appagare. Alla primogenita del magistrato Antonio Avigliano, Elisa , che Di Giacomo conobbe nell’estate del 1905 quando la ventiseienne si recò dal poeta quarantacinquenne per attingere notizie dirette per la sua tesi di laurea, sulla poesia digiacomiana, furono scritte numerose lettere, dalle quali si evince la personalità intima del poeta, acceso da una folle passione ma, nel contempo, tormentato da una profonda gelosia. Queste lettere mettono in chiara luce il profilo psicologico, estremamente sensibile, per non dire neuropatico, dello scrittore e la sua dedizione assoluta all’arte e alla poesia”. Poesia che sembrava amare più della sua donna, quella donna che egli lascerà sola negli ultimi anni della propria vita, durante i quali fu colpito da una grave malattia che lo portò alla morte nell’aprile del 1934, cinque anni dopo la sua nomina come Accademico d’Italia dopo aver aderito, nel ’25 al manifesto degli intellettuali fascisti. Una parte della critica ha affermato che la vasta e varia opera digiacomiana “ha il suo segno unitario e il suo sigillo nella poesia”, la quale si snoda tra “una fase più propriamente veristica e narrativa” ed “un’altra più intimamente fantastica e sentimentale”. Nella veste di cantore e poeta di Napoli, Di Giacomo si è immedesimato nella vita, nella storia, nella lingua e nel dialetto della sua città, fino a diventarne un simbolo e un emblema universale. L’interesse per la vasta opera digiacomiana si è risvegliato in occasione del cinquantenario della morte dello scrittore, nel 1984, e successivamente nel più recente centocinquantenario della sua nascita, celebrato a Napoli il 10 marzo 2010.