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  • Amministrare la Cosa Pubblica

    Mentre riflettevo sul senso dell’ esistenza nel Sud, mi è capitato in mano il testo “Le memorie di Adriano” che ho riletto con vero piacere, e mi sono soffermato su una frase di Adriano che mi aveva già colpito a suo tempo:
    “Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo”, è la confessione dalla quale traspare un potente desiderio di ricercare un accordo tra la felicità e il metodo, tra l’intelligenza e la volontà, facendosi ad un tempo carico dei problemi di tutti gli uomini.
    Penso sinceramente che chi amministra la Cosa pubblica si debba a suo modo sentire responsabile, come l’imperatore Adriano, della bellezza della propria Terra e del proprio paese.
    Negli ultimi anni questo pensiero si è addirittura tramutato in una spina dolorosa, continua, nella ricerca di un nesso tra quanto stava capitando, in particolar modo nel nostro territorio sull’impossibilità di definire la qualità e tutto quanto sapete benissimo perché l’avrete letto sui giornali, un nesso dicevo tra l’attuale situazione di chi amministra il Bene Pubblico e alcuni concetti di fondo come il bello, il vero, il giusto.
    Concetti che mi sono venuti ripetutamente alla mente perché nelle mie diatribe quotidiane di questi ultimi giorni con i cittadini di questo paese che mi ha visto nascere mi è sempre stato rinfacciato di inseguire concetti indefinibili che ci avrebbero impedito una corretta pratica e moderna gestione della nostra terra e così – poiché non mi arrendo tanto facilmente – ho pensato che fosse venuto il momento di socializzare questo mio pensiero, vista l’impossibilità di farlo dove invece si dovrebbe farlo, e dove invece si preferisce usare sempre più spesso il potere contro la verità.
    Veniamo dunque ad una prima osservazione:
    L’allargamento del ruolo della comunicazione e della informazione a principale fattore di ordinamento della convivenza umana ha fatto sì che, con il declino delle grandi agenzie di senso ( siano esse religiose o ideologiche) le preoccupazioni della società occidentale venissero espresse non più in termini etici ( il giusto ) ma in termini estetici ( il bello).
    Trasferito in campo amministrativo, potremmo dire che al concetto di utilità si sostituisce quello di gradimento; al concetto di bene, quello di partecipazione.
    Per la verità non si tratterebbe di una sostituzione grave se il concetto di “bello” ed in generale le categorie dell’estetica avessero conservato ancora una loro intima relazione con il concetto di verità e di giustizia. In questo caso ci troveremmo dinnanzi ad una accentuazione diversa, ad una graduazione mutata di elementi all’interno della stessa scala di valori. In realtà è venuta meno, sembrerebbe irrimediabilmente, la stessa solidarietà che in tutto il pensiero classico e in molta parte del pensiero moderno ha caratterizzato il rapporto tra il vero, il bello, il giusto.
    L’utilizzo massiccio delle procedure di consenso (ovvero tutta la comunicazione più tutta l’informazione all’interno di sistemi chiusi e tendenzialmente monopolisti di controllo dei mass media), l’utilizzo massiccio dell’estetica e degli obiettivi sociali implica che gli esseri umani conoscano che cosa è l’uomo, a cosa serve, a cosa
    tende.
    La vera etica ( il giusto) nasce dalla ontologia (dalla verità e dalla sua conoscenza). Una estetica che non sia lo splendore del vero e del giusto è condannata ad una mortale contraddizione che tanto più stridente quanto più estremo è l’impiego che se ne fa: non bastano i violini per coprire gli orrori di Auschwitz,come non basta un bel manifesto elettorale per nascondere la falsità.
    Così come dovrebbe far riflettere che ci siano alcuni “maestri del pensiero” in questo nostro paese che hanno grandi responsabilità nell’operare per il Bene Pubblico, con grande serenità e lucidità fanno addirittura della separazione, della scissione del vero dal giusto e dal bello la loro bandiera cultural/professionale.
    Si arriva così a sostenere che ogni forma di programmazione è pura fiction, pura sostituzione della realtà con una sua protesi artificiale allo scopo di procurare emozioni a chi non è più in grado di provarne nella vita di ogni giorno.
    E non importa nulla se i reality-show sono finti e fasulli: un esempio lampante di come e di quanto una intera estetica abbia troncato deliberatamente il proprio rapporto con la realtà ( cioè con la verità) e si sia condannata a produrre sensazioni
    ed emozioni a prescindere da ogni implicazione riguardante ciò che è giusto e vero perché reale.
    Analogamente, ma ad un livello ancor più radicale, molti capetti di Amantea e non solo, sostengono la necessità di coltivare la virtù dell’ambiguità per poter meglio permettere ai semplici cittadini di adattarsi alle sorprese del futuro.
    In questo secondo caso la negazione di una possibile soluzione positiva del problema conoscitivo ( la verità non esiste e la storia ci ha cinicamente impedito di sperare in un mondo migliore) ha spalancato la porta alle forme di utilità, di convenienza. Rinunciando ad ogni idealità per asservire le Istituzioni dello Stato agli interessi forti di pochi.
    Nell’apparente modernità del modo di agire non ci sono vincitori perché tutti sono stati vinti: chi aveva ragioni teoriche non ha saputo dimostrare nei fatti che tenere insieme il bello , il giusto e il vero rendeva più interessante il compito di mostrare e spiegare il mondo; chi ha rotto l’unità tra verità, bellezza e giustizia ha reso di fatto incomprensibile il mondo.
    Per stare in casa nostra, i “comizi” che normalmente si tengono in questo periodo, dimostrano proprio come su ogni cosa, anche la più semplice, non si riesca più a comunicare, proprio per questo deliberato intento di rompere questa unità, e potersi muovere elasticamente tra i concetti, i regolamenti e le norme.
    Per questo è importante riflettere sul fatto che anche restringendo l’orizzonte dello sguardo a quella parte del mondo che ci appare come il migliore dei mondi possibili le cose non procedono tutte per il verso giusto e la prospettiva utilitaristica od estetica è incapace di rendere ragione di quanto accade. Il futuro dell’occidente è
    segnato dal problema della compatibilità dello sviluppo: in particolare è segnato dal dominio della tecnica e dal conseguente problema della omologazione derivante dalla globalizzazione; per converso si fanno sempre più acuti e gravi i rischi di scontro tra le civiltà anticipate anche dai nuovi flussi migratori sud/nord. Nel frattempo
    fa il proprio ingresso dirompente quella ingegneria genetica dal cui grembo possono uscire soluzioni anche devastanti ma comunque rivoluzionarie per il nuovo secolo che si è aperto. Accanto a questi megatrend, esiste una quotidianità di accoglienza e di costruzione di una società più solidale, che interessa un numero crescente di persone – soprattutto giovani – e che costituisce un racconto di per sé ben più commovente ed emozionante di tante fiction studiate a tavolino e di tanti falsi reality-show diventati l’oppio della gente.
    Nonostante il tentativo di conformare la realtà alle parole, essa, la realtà, è e rimane a disposizione di quanti intendano incontrarla, interrogarla, modificarla, rappresentarla senza la pretesa di esaurirla ma anche senza la tentazione di ridurla alla propria categoria e alla propria rappresentazione.
    Il problema di cosa sia la realtà è l’altra faccia del problema della verità.
    Domandarsi se esista la verità equivale a domandarsi se esista la realtà. Così come nessuna persona minimamente ragionevole concluderebbe che la realtà non esiste solo perché essa è difficilmente interpretabile e catalogabile, altrettanto dovrebbe essere detto e fatto a proposito della verità, la quale non cessa di esistere per il solo fatto di essere (spesso, ma non sempre) difficilmente conseguibile.
    Un grande pensatore diceva: “La verità è un’isola, circondata da un ampio e tempestoso oceano. L’oceano è la sede della parvenza, dove vari banchi e masse di ghiaccio che tosto si fonde simulano la presenza di nuove terre, ingannando con vuote speranze il navigante che gira intorno per fare nuove scoperte”.
    Per salvare ciascuno di noi dalle manipolazioni degli altri e dalla nostra stessa capacità di manipolazione occorre tornare ad esercitare la riflessione, ovvero osservare la realtà lasciando che attraverso il continuo paragone con essa si formi quel senso critico che è il bene più prezioso dell’uomo.
    Il senso critico nasce nella persona innanzitutto come paragone tra le esigenze della propria ragione e del proprio cuore di oggi, con i suggerimenti e le proposte che gli vengono da una tradizione che lo precede.
    Il senso critico quindi non può nascere dal nulla, ma dentro un paragone serio con quanto l’individuo riceve dalla tradizione da cui proviene (famiglia, comunità, nazione, religione, arte, ma anche partito o movimento…). Un uomo senza tradizione e senza la verifica di essa nel presente non ha cultura: al massimo ha una buona adattabilità alle mode, una educata passività a ciò che passa il convento più forte del momento.
    Così si sta facendo sempre più strada un sentimento di scoramento anche nei più entusiasti delle finalità dello Stato.
    Dietro tale rinuncia vi è una stanchezza della mente, dello sguardo e del cuore: un affievolimento della fiducia nella ragione, nella sua capacità di creare la realtà , di rappresentarla secondo giustizia ( cioè anche nella sua valenza drammatica) trovando la cifra estetica affinché il sapere ed il conoscere diventino una declinazione del bello.
    Noi siamo chiamati ad operare in una epoca che ha fatto dell’estetica la fabbrica delle paillettes e della verità l’anticamera della convenienza.
    Non rinuncio tuttavia a credere che sia possibile, sulla base di una comune passione per l’umana avventura, riformulare un’idea di comunicazione e di informazione che si riappropri della funzione di introdurre al bello e di valorizzare ciò che è giusto.
    Uno dei modi con cui potremmo definire il giusto, con il linguaggio moderno della comunicazione, è l’utilità sociale. Quando decidiamo di che cosa occuparci, abbiamo sempre, esplicitamente o implicitamente, una idea di utilità. L’ utilità può essere rappresentata dall’indice di gradimento. Dal profitto. Dal clamore. Dal potere. Dal
    successo. Può essere anche rappresentata dalla crescita di una comunità solidale. In quest’ultimo caso il criterio di scelta avrà come riferimento una idea di bene comune vasta, articolata, positiva e propositiva.
    Ma spesso coprono solo una pigrizia che insorge solo dopo che si sia gettata la spugna con gesto unilaterale. Cambiare si può.
    Rimane il non indifferente problema delle appartenenze, che spesso dalle nostre parti è stato e viene visto come appartenenza al carro del potere politico.
    Così capita anche che qualche cretino patentato ricopra ruoli di grande importanza perché ben visto dal principe, o perché utile ad una serie di scambio di favori.
    Per concludere, vorrei ribadire che sono due le cartine di tornasole che rendono giustizia del bello/giusto/vero:
    – la realtà
    – la memoria
    La realtà come gusto del reale, curiosità del presente, stupore per le evidenze che sfuggono ai pregiudizi e ai paraocchi ideologici.
    Perché la realtà, se si è in una posizione umanamente autentica, azzera ogni pre-idea su di essa. E ti fa magari scoprire qualcosa di nuovo.
    Prendiamo Giorgio Gaber nella sua ballata Destra-sinistra:

    “Tutti noi ce la prendiamo con la storia/
    ma io dico che la colpa è nostra/
    è evidente che la gente è poco seria/
    quando parla di sinistra o destra”….
    “L’ideologia, l’ideologia/
    malgrado tutto credo ancora che ci sia/
    è il continuare ad affermare/
    un pensiero e il suo perché/
    con la scusa di un contrasto che non c’é/
    se c’è chissa dov’è, se c’è chissa dov’è).

    Oltre alla realtà c’è la memoria, la voglia di capire il passato senza sbarazzarsene, la consapevolezza di venire da un posto, da un popolo, da una lingua, da una tradizione (anche se la si mette in discussione). E inevitabilmente genera appartenenza in chi la vive, crea unità, rompe il pregiudizio ideologico.
    Ancora Gaber ne la Canzone dell’appartenenza:

    “L’appartenenza/
    è assai più della salvezza personale/
    è la speranza di ogni uomo che sta male/
    e non gli basta esser civile./
    E’ quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa/
    che in sé travolge ogni egoismo personale/
    con quell’aria più vitale/
    che è davvero contagiosa.)”

    Il prezzo da pagare nell’escludere realtà e memoria dal proprio orizzonte, è quello del conformismo, dell’assenza di ogni identità.
    Gaber mi perdonerà se lo saccheggio così, ma la sintonìa è assai forte con quello che canta ne Il conformista:

    “Il conformista è un uomo a tutto tondo/
    che si muove senza consistenza/
    Il conformista s’allena a scivolare/
    dentro il mare della maggioranza/
    è un animale assai comune/
    che vive di parole da conversazione/
    di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori/
    il giorno esplode la sua festa/
    che è stare in pace col mondo e farsi largo galleggiando.

    Due parole di conclusione, queste sì di carattere politico, ma intendendo la politica con la P maiuscola, come la intendevano i Greci che la chiamavano “politikè tekne”, l’arte di vivere insieme nella Polis.
    Fra poco ci saranno le elezioni, c’è chi si attende grandi cambiamenti e chi no.
    Io vorrei uscire da questa logica e ricordare a futura memoria, che non c’è salvezza per la bellezza della nostra terra, del nostro mare, ecc., se chiunque vinca promuoverà semplicemente un cambiamento di segno (o il mantenimento del segno precedente).
    Quello di cui ha bisogno questo nostro Paese deriso è un profondo cambiamento di “senso”, non di segno: intendendo con questo il recupero della più originale e più forte e più grande tradizione che ci appartiene, che appartiene a tutti quei paesi che si affacciano sul grande lago Mediterraneo.

    Sottolineo due obbiettivi essenziali, primari: un voto contro chi ha derubato martoriato e violentato Amantea e, poi, un voto a chi cambierà tutto questo in meglio mettendo da parte, almeno per questa volta, gli interessi personali. Mai come in questa ora difficile abbiamo bisogno che votino in tanti, e che votino bene. E non solo perché dobbiamo dare un colpo a quelli che in concreto vogliono male alla nostra Cittadina , ma perché oggi abbiamo necessità di un peso e di volti nuovi e puliti alla guida di Amantea.

    Noi, lo diciamo forte ciò che siamo e continueremo a batterci contro le ingiustizie sociali, contro le prepotenze, contro quelli che hanno portato Amantea nella lista dei paesi ad alta infiltrazione mafiosa e che insistono nel dire in giro che vogliono bene al nostro paese.

    Sosteniamo questa nostra lista per mantenere aperta la strada maestra, soprattutto nel nostro Comune. La prevenzione del disagio sociale nel territorio, passava e passa anche attraverso le politiche attive del lavoro; i costi della
    disoccupazione sono sociali e umani e si manifestano in svariate problematiche psicologiche e psicofisiche.
    Da questa breve analisi è evidente che Il welfare locale non poteva e non può essere
    improvvisato perché necessitava e necessita di scelte di priorità rispetto alla composizione della società e alla linea di sviluppo perseguito, di certezza di risorse, di distinzione e articolazione di funzioni come di responsabilità e sinergie
    istituzionali, di concertazione sociale, di percorsi scadenzati per tappe concrete , per migliorare la qualità della vita delle fasce più deboli, nel settore turistico per rilanciarlo, nel settore dell’ambiente per un territorio sempre meno inquinato.
    E con questo bagaglio e programma che oggi bisogna presentarsi davanti agli elettori e concittadini, a chiedere con il loro voto una conferma forte della presenza di un gruppo che ha sposato un programma ben definito.
    L’ impegno dovrà essere totale verso quelle iniziative tese a tutelare e proteggere la natura, l’ambiente le acque, la difesa del suolo e delle bellezze naturali, della mobilità ed infrastrutture, demanio stradale e viabilità, risparmio energetico, rifiuti e controllo merceologico e beni culturali. Ciclo integrato delle acque (dalla sorgente al depuratore)
    a) Ciclo dei rifiuti
    b) Scuola
    c) Viabilità minore
    d) Trasporto pubblico locale
    e) Pianificazione territoriale ed ambientale
    f) Politiche sociali e dell’immigrazione
    g) Turismo.
    h) Gestione diretta dei servizi.

    Eventuali dubbi su necessità e significati di una buona Amministrazione di Amantea vengono diradati dall’attenta lettura della Costituzione:
    Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
    E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. (Articolo 3)
    A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale. (Articolo 43)
    Missione nell’amministrare la Cosa Pubblica è, soprattutto, combattere l’ espropriazione della cultura, dell’intelligenza e della creatività della maggioranza dei cittadini comuni; espropriazioni che stanno colpendo sempre più il diritto fondamentale dell’identità personale e collettiva ponendo in essere veri e propri “genocidi culturali”. La sua stessa ragion d’essere consiste nell’ evitare la progressiva emarginazione dei cittadini dalle conoscenze e dai circuiti informativi e formativi necessari alla costruzione di una consapevolezza sociale. La sua funzione è altresì quella di respingere il gigantesco fenomeno di omologazione dei modelli culturali ed educativi all’egemonia degli interessi di mercato rispetto a quelli della collettività.
    Oggi, era della globalizzazione, è necessario – più che in qualsiasi altra epoca – assumere responsabilità per essere presenti con la propria storia, la propria cultura al fine di contribuire all’interscambio fra le diversità : questo è l’unico processo che garantisce evoluzione e crescita dei popoli; questo l’unico antidoto all’entropia culturale, madre di tutti i processi involutivi di cui la Storia è testimone.
    E’ paradossale che nell’epoca di Internet, sia diventato così difficile per i cittadini che non appartengano alle oligarchie economiche, politiche e burocratiche, reperire ed utilizzare strumenti efficaci di informazione e di saperi dissidenti dal modello culturale e politico dominante.
    Percepiamo sempre più frequentemente l’indottrinamento dei giovani attraverso il controllo dei contenuti dell’educazione, della cultura e dell’informazione ed attraverso la somministrazione di “nozioni culturali” e scientifiche del tutto lontane dalla realtà della vita quotidiana.
    Quale futuro ci possiamo aspettare se i presupposti sono quelli di subire senza nessun atteggiamento critico le mire egemoniche di chi pensa che il profitto sia l’unica forza propulsiva del vivere e dell’operare umano? di chi pensa di applicare le logiche delle televisioni commerciali e ridurre l’amministrazione comunale ad una miriade di imprese private che distribuiscono ai cittadini servizi di dubbia qualità provenienti da fonti privi di una identità specifica.
    Alla luce di quanto appena detto non si può restare in silenzio ma occorre valutare attentamente ciò che si sta verificando nel Paese e al Paese e prendere una posizione chiara e inequivocabile sulle trasformazioni che si ispirano a logiche incomprensibili e che qualcuno sta cercando di portare a compimento utilizzando termini e concetti impropri e mistificanti che celano i veri obbiettivi perseguiti, forse indicibili.
    Da una visione del Comune, gestore ed erogatore di servizi pubblici che da una parte deve offrire un servizio e dall’altra, e questo è l’aspetto più importante, deve recare in sé la convinzione, anzi la certezza, di essere espressione della civiltà di un popolo ad un determinato grado di sviluppo, di rappresentarne la cultura nei suoi molteplici aspetti, di esprimere le sue particolari forme organizzative, ma anche di dar voce alle sue aspirazioni sociali più profonde.
    Se questa certezza dovesse venir meno, verrebbe meno anche l’identità, cioè quella “fisionomia” che attraverso secoli di storia ci ha reso riconoscibili agli occhi di tutto il mondo. Oggi, più che mai, è necessario esser presenti con la propria storia e la propria cultura per contribuire all’interscambio fra diversità necessario all’evoluzione e crescita dei popoli, unico antidoto all’entropia culturale, madre di tutti i processi involutivi di cui la Storia è testimone.
    A questo punto bisogna chiedersi, non senza preoccupazione, da dove proviene l’esigenza di voler applicare a tutti costi soluzioni e modelli che senza ombra di dubbio derivano da situazioni distanti da ciò che siamo e siamo stati, e che dunque possiamo solo imitare nelle conseguenze se non le abbiamo determinate nelle cause.
    Noi, lo diciamo forte ciò che siamo e continueremo a batterci contro le ingiustizie sociali, contro le prepotenze, contro quelli che hanno portato Amantea nella lista dei paesi ad alto rischioso mafioso e che insistono nel dire in giro che vogliono bene al nostro paese.
    La prevenzione del disagio sociale nel territorio passava e passa anche attraverso le politiche attive del lavoro; i costi della disoccupazione sono sociali e umani e si manifestano in svariate problematiche psicologiche e psicofisiche.
    Da questa breve analisi è evidente che Il welfare locale non poteva essere
    improvvisato perché necessitava e necessita di scelte di priorità rispetto alla composizione della società e alla linea di sviluppo perseguito, di certezza di risorse, di distinzione e articolazione di funzioni come di responsabilità e sinergie istituzionali, di concertazione sociale, di percorsi scadenzati per tappe concrete.

    Un grande calabrese, Tommaso Campanella spesso ripeteva: “Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia”.

    Gigino Adriano Pellegrini – G el Tarik

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