Beaumont sur Mer 16 agosto 2017
ll sonno sparisce. La fissazione domina le notti. Le parole smettono di significare e lo slancio erotico esplode in mille mulinanti raffigurazioni come un fuoco di bengala. La voglia si traduce in vaneggiamento. In tanto meraviglioso delirio, alla fine, si riconosce un centro lucido e immutabile: la certezza che un unico sentimento costituisca il senso della vita. E con questa certezza subito se ne annuncia un’altra: che non siamo beneamati e non vogliamo bene mai abbastanza. Questa è la vera oscenità: non saper vivere fino in fondo i nostri desideri più segreti. Comunque, come dice Hesse: “L’amore deve avere la forza di trovare la sua via verso la certezza. Allora cessa di essere semplicemente attratto e inizia ad attrarre.” La gente dice che ho un aspetto gradevole, e stronzate simili. Non possono sapere che ho una scheggia nel cuore. Non sanno che sto vivendo in un vuoto foderato di raso. Sembra che non si rendano conto di quanto io sia diventato idiota. Ma io lo so! Mi capita di buttarmi in ginocchio e cercare una formica o uno scarafaggio con cui parlare. Sto iniziando a stancarmi di parlare sempre da solo. Ogni tanto prendo il cellulare e faccio finta di parlare con lei. Il sentimento in sé non è una malattia. Non compare nei manuali psichiatrici. Piuttosto è la sofferenza che smuove che viene portata spesso davanti ad uno psicanalista. Diventa tuttavia l’ambito privilegiato di molti disturbi. Perché in questo sentimento mettiamo tanto di noi, le parti più intime, le nostre fragilità, fratture, esigenze. Senza rendermi conto, attraverso questo sentimento evoco le prime relazioni affettive. E il terreno dell’attaccamento è sempre scivoloso, denso di imprevisti e complicazioni. Ci sono somiglianze tra lo stato del cervello quando siamo affascinati o dopo aver fumato dell’ottima hashish, ad esempio. Quando ci si lascia andare all’anticonformismo. Si dice che l’attaccamento confini con la follia. Quando Orlando (nel “Furioso” di L. Ariosto) sfinito si addormenta, fa un sogno che appare come un triste presagio: gli sembra di trovarsi insieme ad Angelica in un luogo bellissimo (s’una verde riva/ d’odoriferi fior tutta dipinta) ma improvvisamente si scatena una tempesta che struggea i fiori, et abbattea le piante e mentre cerca riparo, smarrisce la fanciulla; disperato, la cerca invano, finché non sente una voce che ammonisce: Non sperar più gioirne in terra mai. Terrorizzato, Orlando si sveglia in lacrime e senza esitare indossa un’armatura, balza in groppa al suo cavallo e parte alla ricerca di Angelica. Incubi? Vaneggiamenti? «Chi non sogna forse non è neanche vivo». Nella sua ricerca di Angelica Orlando, dopo numerose avventure, si scontra a duello con Mandricardo, re di Tartaria, ma durante il combattimento il cavallo, imbizzarrito, si dà alla fuga portando in sella il saraceno. Il paladino lo sta inseguendo da due giorni, quando giunge ad un limpido ruscello (un rivo che parea cristallo) con le sponde verdi coperte di fiori e di alberi. Orlando entra nel bosco per riposare e mentre si guarda intorno vede ovunque, incisi sugli alberi i nomi di Angelica e Medoro intrecciati nei modi più diversi (con cento nodi/ legati insieme, e in cento lochi vede). Di questo innominabile sentimento si parla spesso anche come di una droga. Una meravigliosa dipendenza quando è ricambiato, un tormento se non lo è. Con la tossicodipendenza infatti condivide molto: insonnia, perdita del senso del tempo, concentrazione assoluta sulla “sostanza”, disponibilità ad assumersi rischi pur di averla, bisogno crescente di consumo, tolleranza e astinenza. Disperato, il paladino cerca di negare l’evidenza: Angelica ha inventato il nome Medoro e lo ha usato al posto di Orlando, il vero destinatario di quelle parole d’amore. Ma il rio sospetto che Angelica lo abbia tradito divampa inesorabilmente: l’infelice (il mesto conte) è simile a un uccello caduto incautamente nella rete che quanto più si dibatte più s’impiglia e si fa prigioniero. Giunge infine in una grotta adorna d’edera e viti; sulle pareti Medoro ha inciso in arabo queste parole: la bella Angelica, da molti invano amata,/spesso ne le mie braccia nuda giacque; Orlando purtroppo conosce bene l’arabo e il dolore che prova è così grande da impedirgli perfino di piangere . Per trovare conforto tenta di ingannarsi ancora una volta: qualcuno ha scritto quelle frasi per gettare infamia sulla sua amata, non è lei l’Angelica di cui si parla! E, sempre più disperato, continua a vagare senza meta. Un antidoto. Una spinta emotiva di grande portata che parla molto di noi e non può essere controllata, ridotta e spiegata sulla base di valori chimici, molecole e cellule perché, fortunatamente, siamo ben più complessi. E nemmeno può essere “guarita” se non è indirizzata, non funziona, non si esprime, non si allinea con quello che viene considerato “normale”. Ci sono persone che nascono nel periodo sbagliato, nella casta sbagliata, nella tradizione sbagliata. Non esattamente eremiti, ma esuli, esuli volontari.
Gigino A Pellegrini & G el Tarik